Il Mio Ragazzo Girasole

Avevo cinque anni quando mi ero persa e avevo trovato un unico girasole in un campo desolato. Era estate e mi ero allontanata dai miei genitori per rincorrere una farfalla. “Anche tu sei solo?” gli avevo chiesto, facendo piovere con le mie lacrime. Avevo asciugato delicatamente i suoi piccoli petali gialli come faceva la mia mamma mentre piangevo. “Vuoi essere mio amico? Io non ho amici…” Un gatto aveva cercato di strapparlo, ma io l’avevo protetto con il mio corpo; un graffio era comparso sul mio braccio destro. L’animale se n’era andato e io mi ero addormentata. Quando avevo riaperto gli occhi, un bambino mi aveva sorriso stringendo in mano un girasole e aveva annuito; con l’arrivo dei miei genitori era scomparso. L’estate successiva e pure quella dopo l’avevo cercato da quelle parti, senza successo, per poi dimenticare i tratti del suo volto. Forse l’avevo soltanto sognato, mi ero detta.
Aspettai il mio ragazzo seduta su una sedia, la banchina della stazione deserta. Aveva deciso di portarmi nel luogo del nostro primo incontro.
“Sei in ritardo!” lo ammonii, gonfiando le guance per fingermi arrabbiata.
Rise. “Scusami,” disse, grattandosi i capelli leggermente spettinati.
“Tu credi nel destino?” mi chiese mentre saliva sul treno, volgendomi le spalle.
“No. E tu?”
Annuì. “Ti ho trovata. Quella volta mi hai salvato, ora spetta a me proteggerti,” rispose e mi strinse a sé, sorridendomi con in mano un piccolo girasole. Il suo sorriso mi irradiò come quel meraviglioso fiore.

 

sunflower

Cosa pensano i miei lettori di Sei Il Mio Angelo

A proposito di Sei Il Mio Angelo, la mia nuova storia breve, Laura Forlani dice:

❝Ok, devo dire che mi hai sorpresa! Non mi aspettavo per niente un risvolto simile, sono rimasta spiazzata! Però davvero scritto molto bene, complimenti!❞

 

A proposito di Sei Il Mio Angelo, la mia nuova storia breve, Claudia Leto dice:

❝È bella, mi piace il modo in cui hai descritto una situazione complicata tra la morte della madre e lo stato d’animo delle due ragazze, come anche la conclusione che è stata inaspettata e questo è importante. Però è il tuo modo di dare voce ai pensieri di personaggi diversi tra loro che mi piace, il fatto che ad esempio lei ed Alice di Parole Sbagliate non siano uguali e abbiano storie completamente diverse e tu riesca a descrivere i loro sentimenti con naturalezza, guardi la storia dalla loro angolazione e provi empatia per loro: è questo che fanno le persone brave a scrivere.❞

 

A proposito di Sei Il Mio Angelo, la mia nuova storia breve, Francesca Macari dice:

❝A me piace tanto leggere,non sono tanto brava a scrivere, però il tuo racconto breve mi è piaciuto . La storia è molto attuale e mi è piaciuto il finale.❞

 

A proposito di Sei Il Mio Angelo, la mia nuova storia breve, NebulaHouse (from Twitter) dice:

❝”Salii in auto, restando in silenzio. Il vento entrava dal finestrino abbassato e mi scompigliava i lunghi capelli biondi; la musica in sottofondo mi cullava, come le ninnenanne che mi cantava la mamma quando ero piccola.” Bello! Di piacevole lettura!❞

 

A proposito di Sei Il Mio Angelo, la mia nuova storia breve, Melania Nalin dice:

❝Ciao Elisa ho letto il tuo racconto Sei il mio angelo e mi ha confermato la tua bravura come scrittrice.
Nonostante sia breve sei riuscita a sviluppare la storia in tutti i suoi aspetti senza che risulti affrettata con “poche parole” hai reso perfettamente l’idea dei sentimenti provati dalle protagoniste un bel mix dolce amaro, finale inaspettato che ho apprezzato molto.
P.s. Mi è piaciuto il richiamo che hai fatto al libro Parole sbagliate mi ha fatto tanta tenerezza.❞

 

Sei il mio angelo

Il corpo di mia madre era riverso a terra in una pozza di sangue. Il liquido viscoso l’aveva avvolta come una coperta calda, il volto contratto in una smorfia. Le nuvole offuscarono il sole, facendo piombare la stanza in un’oscurità sinistra che ricordava un film dell’orrore. Un’altra figlia avrebbe urlato alla vista della propria madre morta sul pavimento, mentre io cercai di rimanere impassibile per non attirare l’attenzione dei vicini.
L’ho uccisa, pensai. E adesso che cosa faccio? Dovrei sbarazzarmi di lei, ma è troppo pesante per sollevarla da sola. A chi potrei chiedere aiuto?
Non potevo chiamare Veronica; se avesse scoperto quello che avevo fatto, non mi avrebbe più rivolto la parola. Perdere la persona che amavo era un prezzo troppo alto da pagare, quindi decisi di telefonare a Chris. Il cellulare del mio ragazzo era spento. Guardai la macchia di sangue, il corpo immobile di mia madre, la stanza silenziosa: quella scena mi sembrò irreale, come se appartenesse alla vita di un’altra persona. Potrebbe trattarsi di un’altra visione, pensai. Mi era capitato di avere un’allucinazione qualche mese prima, quando la mamma mi aveva obbligata a prendere una strana pastiglia. “Oggi è una giornata difficile, devi prendere le medicine,” aveva detto in tono calmo.
Chiusi gli occhi, feci un respiro profondo e poi li riaprii: lo scenario non era cambiato. Quando riprovai a chiamarlo, Christopher aveva ancora il telefono spento. “Devo liberarmi del cadavere prima che arrivi Veronica!” urlai fissando lo schermo del mio cellulare, per poi scaraventarlo contro il muro. Le lacrime iniziarono a sgorgare dai miei occhi, rigando il mio viso stanco. Scossi la testa, presi alcune banconote dal portafoglio che mia madre aveva lasciato sul tavolo e le misi in tasca. Poi uscii dalla stanza con l’intento di raggiungere un contadino gentile e analfabeta che viveva poco distante da casa nostra. Era la mia unica e ultima speranza. Prima di poter scendere le scale, mi accasciai a terra; il buio mi investì come un’onda del mare.

 

Erano passati sei mesi dalla morte di nostra madre. Veronica mi aveva trovata svenuta sul pavimento e aveva chiamato l’ambulanza. Quando avevo riaperto gli occhi, mi ero ritrovata nella stanza di un ospedale. Mia sorella maggiore mi aveva informata che la mamma si era tolta la vita e che aveva lasciato un biglietto. Mentre lei si era occupata di tutta la parte burocratica, con l’ausilio degli zii, io avevo dormito. Non ero stata neppure sgridata quando non ero andata al funerale oppure quando avevo saltato la scuola. Veronica era tornata a lavorare dopo qualche giorno, lasciandomi a marcire da sola nella sua casa. “Sono le medicine di mamma, mi stordiscono,” avevo detto alle pareti per giustificarmi.
Gli odori della cena preparata da mia sorella riempirono la stanza, mescolandosi con tanta armonia da farmi ritrovare l’appetito che avevo perso.
“Cosa stai cucinando?” le chiesi dal salotto.
Non rispose, quindi entrai in cucina; vidi Veronica intenta a tagliare il pane.
“Pollo con patate per Christopher, tortino di patate per la mia sorellina,” disse in tono solenne, passandomi il mio piatto.
“Non mangi con noi?”
Chris suonò il campanello e lei andò ad aprire, ignorando la mia domanda. Lo fece accomodare in salotto, prendendo il mazzo di girasoli che le aveva porto per ringraziarla della cena.
“È il vostro anniversario,” mi sussurrò all’orecchio. “Prendo la borsa e vi lascio da soli.” Mi stampò un bacio sulla fronte e si allontanò.
Non me ne importa nulla dell’anniversario! avrei voluto gridarle. Invece rimasi in silenzio, contemplando la sua schiena.
“Stai bene?” chiese il mio ragazzo.
“No…” risposi senza forze.
Quando Veronica tornò in salotto, ci trovò ancora in piedi. Si era cambiata: indossava la camicia bianca che le avevo regalato con i miei risparmi. Ha un appuntamento, pensai. La guardai, gli occhi che sembravano supplicarla di rimanere.
“È successo qualcosa?” chiese, spezzando così il silenzio imbarazzante che era calato nella stanza.
“Non… non posso rimanere. Mio padre ha un problema… al pub.” Chris non sapeva mentire. Si scusò con mia sorella, lo sguardo mesto. Veronica gli fece portare via il pollo: a lei non piaceva e io ero vegetariana. Quando il ragazzo se ne andò, lei sprofondò sul divano. Poi mi invitò a sedere accanto a lei.
Restammo sedute, senza parlare, per qualche minuto. Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla quiete. Il suo profumo inebriò le mie narici; mi avvicinai al suo collo per baciarlo, ma poi mi fermai. Non posso farlo, pensai. Siamo sorelle. Mi domandai con chi avesse un appuntamento. Veronica non mi aveva mai parlato della sua vita sentimentale e non aveva mai invitato un ragazzo a casa nostra; al contrario, io le avevo raccontato tutto – persino della mia prima volta con Christopher. Provai quindi a immaginare il suo tipo ideale: un ragazzo timido, con gli occhiali, che lavorava in una libreria oppure che controllava i biglietti al cinema, comparve nella mia mente; pensai che fosse carino, ma troppo imbranato per i miei gusti. L’avrei potuto pure accettare, se solo non fossi stata innamorata di lei. Sospirai. Veronica si meritava il meglio e non potevo esserlo io.
“Facciamo shopping domani?” chiese, riaprendo gli occhi e osservando la mia espressione mesta.
Scossi la testa, sconsolata. “Non ho soldi, lo sai…”
“Non preoccuparti, pago io.”
La ringraziai, il tono di voce flebile. L’orologio da polso di mia sorella segnava le 21:15. Avevo fame, quindi mi alzai dal divano per mangiare; il tortino di patate che lei mi aveva cucinato si era raffreddato. Lo tagliai a metà, presi un piatto pulito dalla cucina per mettervi una delle due porzioni e lo porsi a Veronica, insieme alla forchetta che non era stata utilizzata.
“Sei molto tenera,” disse, accarezzandomi la guancia. “Mi è passato l’appetito, scusami…” aggiunse poi; mi restituì il piatto, abbozzando un sorriso. Sembrava spenta, come se qualcosa o qualcuno le avesse prosciugato tutte le energie. Quel qualcuno ero io. Si abbandonò a un sonno leggero e agitato.

 

L’indomani andai a fare compere con Veronica. Aveva delle occhiaie  pronunciate: la sera prima si era addormentata sul divano e quando l’avevo svegliata per prendere il suo posto, aveva rifiutato e mi aveva permesso di dormire nel suo letto. L’avevo osservata agitarsi a causa di qualche sogno, aveva pronunciato frasi sconnesse. Qualcosa la tormenta, avevo pensato. Le avevo preso la mano e avevo aspettato che si calmasse, per poi coricarmi anch’io.
Il centro commerciale non era molto affollato, nonostante fosse mezzogiorno. Dopo aver mangiato un trancio di pizza, entrammo in un negozio di vestiti. Mia sorella si mise a parlare con una delle due commesse.
“Posso aiutarti?” chiese l’altra.
Scossi la testa, continuando a controllare Veronica e quella donna. Si parlavano all’orecchio e ogni tanto scoppiavano a ridere, come due amiche adolescenti. La radio trasmetteva vecchie canzoni d’amore rock che mi rattristarono. Quando Chris entrò nel negozio, lo fulminai con lo sguardo.
“E tu cosa ci fai qui?”
“Mi ha chiamato tua sorella, è preoccupata per te,” disse, indicandola.
“Non guardarla!” esplosi.
“Sei gelosa? Sai che sono innamorato solo di te.”
“Non è così… io…” Continuai a osservarla con una tale insistenza che spazientì il mio ragazzo. Proseguii: “Christopher, vorrei soltanto fare shopping insieme a Veronica. Non siamo più uscite da quando la mamma è morta.” Ero solita chiamarlo Chris, eccetto nei momenti di tristezza o di rabbia. Lo feriva in quanto era stato spesso deriso per il suo nome.
La mia giustificazione non lo convinse del tutto, ma decise di andarsene. Sospirai. Era una brava persona, non potevo più fingere. Mia sorella salutò la commessa e continuammo a girare per negozi.
Comprai un paio di jeans bianchi, due magliette, biancheria intima e uno smalto verde smeraldo; Veronica, invece, acquistò un mascara e uno smalto blu pavone. Avevo sentito la tensione abbandonarmi per qualche ora, il volto sorridente come quello di una bambina davanti a un sacchetto di caramelle. Nel parcheggio mi infilò un braccialetto al polso che aveva comprato senza che me ne accorgessi; i suoi polpastrelli sfiorarono la mia pelle, facendomi fremere. Sei troppo vicina, pensai. Il cuore prese a martellarmi nel petto.
“Ho deciso di lasciare Chris,” le confessai tutto d’un fiato, cercando di distogliere l’attenzione dalle sue labbra.
“Perché?” chiese stupita.
A questa domanda non risposi. Salii in auto, restando in silenzio. Il vento entrava dal finestrino abbassato e mi scompigliava i lunghi capelli biondi; la musica in sottofondo mi cullava, come le ninnenanne che mi cantava la mamma quando ero piccola. La strada si era svuotata e Veronica guidava rilassata: non le piaceva mettersi al volante, soprattutto quando c’era traffico; spesso aspettava che si diradasse, restando parcheggiata a lungo e tornando a casa più tardi del previsto.
Ci fermammo in una libreria. Ripensai al fidanzato che avevo immaginato per mia sorella e scoppiai a ridere. Lei mise un braccio intorno alle mie spalle e sorrise.
“Sono contenta di vederti spensierata, per una volta. Oggi mi sento bene.” Fece una pausa, poi riprese: “Il tuo entusiasmo è contagioso,sai? Sono fortunata ad averti come sorella. Ti voglio bene.”
“Anch’io.”
Sentii l’impulso di abbracciarla forte, di non lasciarla andare. Le sue parole mi avevano scaldato il cuore; erano sincere, pure. Le diedi un bacio sulla guancia e le sussurrai un timido “grazie”. Sono io quella fortunata, pensai.
La libreria era spaziosa e ordinata, l’odore di carta stampata. L’atmosfera era tranquilla: le poche persone presenti sfogliavano i libri in silenzio. Veronica si allontanò e tornò poco dopo con un romanzo intitolato Parole Sbagliate. “Parla di una ragazza che trova un libro magico contenente un messaggio in codice da decifrare. Decide di tenerselo  e incominciano ad accadere cose strane. Me l’ha consigliato una collega,” spiegò. Annuii.
“Te lo regalo,” disse poi. Andò a pagarlo e uscimmo dalla libreria.
“Grazie. E tu, cosa vorresti? Se lavorassi al pub del padre di Chris, potrei comprarti qualcosa per ricambiare.”
Scosse la testa. “Vorrei soltanto che tu fossi felice.” Prese una ciocca dei miei capelli tra le dita, mi guardò negli occhi e pianse. Non l’avevo mai vista in lacrime, neanche quando era morta nostra madre.
“Scusa…” Non sapevo come consolarla, quindi l’abbracciai per calmarla.
Veronica mi faceva dei doni ogni mese. “Oggi non è il mio compleanno,” avevo detto la prima volta. “Non importa,” aveva risposto lei. Mi aveva comprato un quaderno e delle gomme da cancellare per la scuola, un mappamondo e un libro. Era ancora un’adolescente che lavorava soltanto d’estate. Grazie, diceva il biglietto che accompagnava ogni suo regalo.
Tornammo a casa per l’ora di cena. Mia sorella salì in camera senza proferire parola, l’espressione mesta.
“Vuoi che cucini qualcosa?” le chiesi, entrando nella stanza.
“No,” rispose laconica.
“Sei sicura? A pranzo hai mangiato solo un trancio di pizza.”
Sospirò. “Cosa vuoi che ti prepari?”
Dopo aver cenato insieme, Veronica tornò in camera. Mi feci una doccia e la raggiunsi. Era intenta a scrivere con il computer portatile, seduta sul letto. Mi spogliai davanti allo specchio, tenendo soltanto le mutande che avevo comprato al centro commerciale. Mia sorella non distolse lo sguardo dallo schermo. Guardami, scema! Perché ti importa più di quello stupido romanzo che di me? Scossi la testa. No, solo una malata di mente come me potrebbe innamorarsi della propria sorella, mostrarle il sedere e sperare di essere desiderata da lei. Quando il mio cellulare squillò, indossai la maglietta e uscii dalla stanza.
“Christopher…” la voce mi si strozzò in gola. Parlammo – o meglio, litigammo – per più di un’ora. Tornai da mia sorella per dirle che avevo lasciato Chris e la trovai addormentata, il portatile sulle ginocchia. Lo presi, facendo attenzione a non svegliarla, e lo appoggiai sulla scrivania. Lessi la storia che aveva scritto: narrava di due ragazze che sembravano amarsi. Ritornai con la mente all’immagine della commessa che le parlava all’orecchio e che la faceva ridere. E se fosse innamorata di lei? No, è solo un racconto di fantasia. Continuai la lettura per scoprire che le protagoniste erano sorelle. È la nostra storia. Salvai il file di testo al suo posto e spensi il computer. Andai a stendermi accanto a lei, il volto raggiante; le strinsi la mano. “Sono perdutamente innamorata di te,” le sussurrai all’orecchio, pensando che non mi avesse sentita.

 

Nelle settimane successive Veronica era diversa dal solito: mi rivolgeva a stento la parola; ogni sera mi preparava la cena e poi usciva, rincasando tardi e il più delle volte ubriaca.
“Perché non resti a casa e guardiamo un film insieme?” le avevo chiesto una volta. Indossava una gonna troppo corta e una maglietta attillata.
“No,” aveva risposto secca.
“Cos’hai?”
Mi aveva guardata con freddezza e se n’era andata.
Iniziai a tenere un diario; le pagine assorbivano le mie lacrime, macchiandosi di inchiostro, come una mappa disegnata male. Annotavo ogni comportamento che Veronica assumeva nei miei confronti, riportavo i miei stati d’animo e scrivevo dei miei problemi con la mente. Avevo persino ripreso ad assumere le pastiglie che mi dava la mamma quando era ancora viva. Quello stesso giorno avevo avuto un’allucinazione. Ho ucciso nostra madre, avevo pensato quando ero tornata alla realtà. Non posso dirlo a Veronica, non deve saperlo. È tutto così confuso nella mia testa. Perché mia sorella aveva parlato di suicidio? E poi… io sono innamorata di lei. In quell’istante avevo avuto un’illuminazione: Veronica si era svegliata e mi aveva sentita mentre le confessavo i miei sentimenti. Avevo preso a pugni il cuscino, le lacrime che scendevano copiose dai miei occhi, come un fiume in piena. Sono stata una stupida! Non voglio perderla…
L’orologio appeso al muro della cucina segnava le 19. Mia sorella entrò in casa con due pesanti buste di plastica.
“Aspetta, ti aiuto.” Provai a sfilargliene una dal polso, ma lei la strattonò e il suo contenuto si riversò a terra.
“Scusa…” Raccolsi i sacchetti contenenti le carote, le patate e le mele, la confezione da otto yogurt e quella dei cereali. Veronica mi accarezzò la schiena. Mi voltai e la guardai: il suo sguardo era triste. È colpa mia, pensai. L’ho ferita con i miei sentimenti.
“Scusami,” disse poi. “Ti ho trattata male. È solo che…”
“Mi sono innamorata di te,” l’anticipai.
“Lo so, ma è sbagliato. Siamo sorelle. Ho cercato di tenerti lontana per il tuo bene, nella speranza che ti dimenticassi di me in quel senso. Non è stato facile, odio vederti soffrire. Perdonami, non avrei voluto ferirti in questo modo.”
“Ma io ti amo!”
Mi avvicinai a lei e la strinsi forte. “E tu cosa provi per me?” le chiesi, nonostante conoscessi la risposta.
Non disse nulla, lo sguardo basso. Le alzai il mento con la mano affinché mi guardasse negli occhi; ripetei la domanda con calma, in attesa della sua replica.
Perché non parla?  Le scostai i capelli dal collo e lo baciai. Veronica non oppose resistenza; se ne stava immobile, come se fosse priva di forze, di emozioni. Quando accostai le mie labbra alle sue, mi respinse
“Cosa stai facendo? Siamo sorelle!”esplose.
“Io…”
“Siamo sorelle,” ripetè, lo sguardo mesto.
“Che cosa provi per me?” provai a domandarle un’ultima volta.
“Non ricambio i tuoi sentimenti, mi dispiace.”
Veronica mi ha rifiutata, pensai. Mi alzai, senza guardarla, e uscii di casa, incurante della pioggia.

 

La foto che mi ritraeva insieme a mia sorella era leggermente storta. Mi alzai dal letto con l’intenzione di sistemarla, invece la staccai dalla bacheca di sughero e l’osservai. Era la mia fotografia preferita: in quell’istante avevo capito di essere attratta da lei. “Sei bellissima,” mi rivolsi alla ragazza immortalata nello scatto, accarezzandole la guancia con l’indice della mano destra. Mi abbandonai a un pianto disperato, squarciando il silenzio innaturale presente nell’abitazione. Quella sera ero scappata di corsa senza prendere le mie cose – compreso il cellulare – e mi ero rifugiata nella casa dove avevamo vissuto con la mamma; non era ancora stata venduta, ma Veronica veniva spesso a pulirla e ad arieggiarla. Mi ero tolta gli indumenti fradici di pioggia, mi ero asciugata i capelli con un asciugamano consunto e avevo indossato una lunga maglietta che mia sorella aveva dimenticato lì qualche giorno prima.
Mi addormentai. Feci uno strano sogno: Veronica non era mia sorella, era una mia amica d’infanzia che si era innamorata di me, che mi baciava e che mi desiderava. Se non fossimo sorelle, potremmo stare insieme? mi chiesi, svegliandomi con i primi raggi del sole che entravano dalla finestra aperta. Sentii un rumore: era mia sorella che sbatteva la portiera della sua automobile. Scesi le scale di corsa, i capelli arruffati. Lei aprì la porta e me la ritrovai davanti.
“Allora eri qui…” Tirò un sospiro di sollievo.
“Non volevo farti preoccupare.”
“Torniamo a casa,” disse, guardardandomi con tenerezza e apprensione.
Scossi la testa. “Ho ucciso la mamma. Mi dispiace. Non odiarmi, ti prego. Mi dispiace.” Provai a scusarmi. Non voglio perderla, pensai.
“Calmati, piccola.” Mi accarezzò il braccio, poi si avvicinò a tal punto che potevo sentire il suo respiro affannoso. Sfiorò delicatamente le mie labbra con le sue. L’allontanai con decisione, nonostante desiderassi baciarla.
“Non possiamo, siamo sorelle.” Dover rinunciare a lei era la cosa più difficile per me.
“Non siamo sorelle, almeno non di sangue.”
La guardai confusa. “Che stai dicendo?”
“È così: I tuoi genitori biologici ti avevano abbandonata davanti al portone di casa nostra. Quando ti avevamo trovata, piangevi per la fame o per il freddo, non lo so. Desideravo tanto una sorellina, avevo solo cinque anni. Per fortuna i miei erano riusciti ad adottarti, così iniziasti a far parte della nostra famiglia.”
“Perché non me l’hai detto prima? E perché hai tentato di baciarmi? Tu non ricambi i miei sentimenti, ricordi?” Ero sconvolta. Feci dei respiri profondi per calmarmi.
“I miei mi avevano fatto promettere di non dirti nulla per non ferirti. Avrei voluto dirti la verità durante questi mesi, ma avevo paura di perderti. Mi detesti?”
“Non potrei mai detestarti, lo sai.”
Veronica mi guardò negli occhi, tenendomi per mano. “Non pensare che per me sia stato facile: quando baciavi Chris, dovevo reprimere la gelosia; quando ti spogliavi, dovevo cercare di non guardarti; quando ti avvicinavi, dovevo allontanarti. Fingere di non amarti e di non desiderarti, di vederti solo come una sorellina, iniziava a diventare una tortura.”
Abbassai la testa: era il mio modo di chiederle scusa. Non mi ero accorta dei suoi sentimenti, essendo concentrata soltanto su me stessa. Sono un’egoista. L’ho ferita. Come fa ad amarmi?
La ragazza riprese a parlare: “Tu mi hai salvata, come un angelo. Sai, odiavo la mamma.” Si tolse la maglietta e indicò una cicatrice lungo l’addome, poi si voltò e ne indicò un’altra lungo tutta la schiena. “Quando le cose tra lei e mio padre andavano male, si sfogava su di me. Sai, a volte qualcosa si rompe nella mente di qualcuno e a pagarne le conseguenze sono i suoi cari. Ma lei ha smesso di farlo con il tuo arrivo. Dopo un anno papà ci abbandonò, sparendo nel nulla. Avevo paura che la mamma potesse prendersela con me o con te, invece iniziò a chiudersi in se stessa. Era come se fosse avvolta da una membrana trasparente che le impediva di relazionarsi con il mondo esterno e di esprimere le sue emozioni. Sono sola, non ho neppure una famiglia.”
“Non sei sola, tu hai me!” Le spostai le braccia dall’addome che cercava di coprire.
“No, non voglio che tu veda ancora il mio corpo imperfetto! Quando mi spogliavo, i ragazzi mi guardavano schifati e mi lasciavano. È per questo che non ho mai avuto una relazione duratura. Sei sicura di volermi ancora?”
“Sì, sei bellissima.” Le sfiorai la cicatrice con le labbra; Veronica prese il mio volto tra le mani e ci baciammo appassionatamente.
“Smetti di prendere le pastiglie di mamma,” disse, accarezzandomi la guancia. “Non ti fanno bene. Ha cercato di propinarle anche a me, facendomi credere di essere pazza. Ti proteggerò da qualsiasi cosa, te lo devo.”
Mi strinse forte. “Ti amo,” le sussurrai all’orecchio.
“Sei il mio angelo.”
Ce ne andammo da quella che era stata la nostra casa per anni. Veronica mi mise un braccio attorno alle spalle, sorridendomi. Il sole illuminava l’inizio di una nuova giornata e il nostro amore appena sbocciato.

 

 

Il Ladro di Parole (Nuova Storia)

1.  Il ballo di inizio anno

L’odore di salsedine riempì la piccola stanza in cui dormivo. Respirai l’aria salubre e guardai le onde del mare infrangersi sugli scogli, le lacrime agli occhi. Mio padre aveva finito di caricare le ultime valigie nel bagagliaio dell’auto, mentre mia madre era ancora intenta a raccogliere le conchiglie sulla sabbia. Il cielo era terso, in contrasto con il mio stato d’animo. Sospirai. L’indomani avrei iniziato a frequentare una scuola per scrittori; le lezioni erano incominciate da una settimana, quindi avevo preso appunti dal materiale che i professori pubblicavano sul sito dell’istituto. Pensando alla mia nuova vita scolastica, il mio cuore prese a martellarmi il petto; cercai di rilassarmi ascoltando il rumore del mare in lontananza. Ho passato un anno orribile nella vecchia scuola, non voglio essere perseguitata di nuovo, pensai, il terrore negli occhi. La voce squillante di mio padre mi riportò alla realtà: era ora di andare. Chiusi prima la finestra, poi raccolsi il mio zaino dal pavimento e infine chiusi la porta d’entrata. “Addio,” sussurrai, senza mai voltarmi.
ltavano la radio e non conversavano molto in quanto papà preferiva concentrarsi sulla guida e mamma sul panorama; mi piaceva il silenzio che si creava durante i nostri viaggi in automobile, spezzato soltanto dai rumori della strada, che mi permetteva di leggere, studiare o scrivere. A casa, invece, parlavamo di tantissime cose, eravamo proprio una bella famiglia.
Mia madre si riposò un po’ e decisi di imitarla, abbandonandomi a un sonno agitato. Nei miei sogni – o forse dovrei definirli incubi – erano sempre presenti i m“Stai bene?” chiese mia madre quando aprii la portiera, l’espressione in volto di chi conosceva già la risposta.

Scrollai le spalle. “Sì, non preoccuparti,” tagliai corto. Non avevo voglia di esternare in miei sentimenti, così mi misi a leggere un libro. I miei genitori non ascoiei ex compagni di classi, pronti a deridermi, a prendermi in giro, a fare battutine. Mi svegliai, la fronte madida di sudore.

Il viaggio durò cinque ore. Avevo ripassato gli appunti della prima settimana di scuola e scritto un breve racconto; mi ero concentrata sui compiti per non farmi sopraffare dall’ansia e dai ricordi. Quando il mio stomaco aveva iniziato a brontolare per la fame, mi ero concessa uno spuntino. Avevamo fatto una breve sosta al bar per usufruire del bagno, ordinato un caffè al banco per papà, per poi ripartire e arrivare a destinazione per pranzo.
Il sole fece capolino tra le nuvole, come volesse giocare a nascondino. L’aria era soffocante, diversa da quella che ero solita respirare; la brezza marina era ormai un ricordo lontano, sbiadito, come una vecchia fotografia in bianco e nero. Aiutai i miei genitori a portare dentro le valigie e a disfarle. Abbiamo vissuto in questa casa per un po’ di tempo, prima di trasferirci in un’altra città, pensai, guardandomi intorno. Prima di quell’incidente.
Mia madre si avvicinò e mi abbracciò. “Questa volta andrà bene, te lo prometto,” sussurrò.
Lei sapeva.
Mio padre ci guardò perplesso, trascinandosi dietro una pesante valigia.

 

 

 

Vendere un cuore al mercato nero – Storia breve (Anteprima)

Era uscito dallo studio dello psicologo, l’espressione mesta. Aveva distolto lo sguardo e si era incamminato verso il parco, andandosi poi a sedere su una panchina all’ombra di un grande albero. Lo raggiunsi e lo fissai, restando in piedi davanti a lui. Il vento scompigliò i suoi lunghi capelli che sovente nascondevano i suoi bellissimi occhi color nocciola.
Alberto non disse una sola parola; se ne stava in silenzio, la mente occupata da chissà quali pensieri. Sembrava come se stesse scavando nella memoria in cerca di qualcosa: un ricordo, una conversazione, parole affidate al vento. Pur essendo l’uno accanto all’altra, percepivo una distanza insormontabile, come un grande muro che divide un luogo in due.
“Nessuno può aiutarmi!” esclamò all’improvviso, come se volesse rispondere alla domanda che non era ancora uscita dalla mia bocca. Mi accarezzò la guancia e sussurrò un flebile grazie. Poi si alzò e se ne andò, senza mai voltarsi.

Ci eravamo conosciuti in un pub del centro, una fredda sera di gennaio. In quell’occasione suonava una delle mie band preferite: i Track in Time. Non erano conosciuti ai più e infatti il locale non era troppo affollato. Alberto se ne stava da solo, a sorseggiare una birra. Invece io avevo ordinato un panino e dell’acqua frizzante: non avevo cenato a casa. Mentre piluccavo il mio sandwich il giovane mi aveva rivolto un sorriso; imbarazzata, avevo ricambiato. Quando il concerto era iniziato avevo distolto lo sguardo e mi ero messa a cantare a squarciagola tutte le canzoni. Finita l’esibizione, Alberto si era avvicinato, un bicchiere di birra nella mano destra, e mi aveva rivolto la parola:
“Spaccano, non trovi?”
Avevo annuito. “Sì, mi piacciono moltissimo! Era la prima volta che li sentivi?”
“Sì,” aveva risposto.
Avevamo parlato un bel po’: dei Track in Time, di musica in generale e di tante altre cose. Alla fine, ci eravamo scambiati i numeri di telefono e la promessa di richiamarci. Ma non fu così, almeno fino all’arrivo della primavera.
Dopo che Alberto aveva lasciato il parco, tornai a casa. Mi feci una doccia fresca, sfogliai distrattamente una rivista e pranzai. Passai il pomeriggio a oziare: prima mi misi a guardare un film, poi lessi un libro e infine ascoltai un CD. Pur avendo riempito la giornata con azioni a cui davo poca importanza, il mio unico pensiero era rivolto al ragazzo di cui ero innamorata; provavo una strana sensazione in mezzo al petto e mi mancava il respiro, come se tutta l’aria presente in questo mondo fosse all’improvviso sparita. La maglietta che indossavo si era appiccicata al mio corpo a causa del sudore e la stanza sembrava essersi rimpicciolita tutto d’un tratto, come se le pareti si stessero spostando per avvicinarsi e schiacciarmi. Respirai profondamente, le spalle che si alzavano e abbassavano a tempo di musica.
“Black tears, drowning in guilt,” cantavano i Track In Time.
Era ormai giunta sera quando ricevetti una telefonata: era Alberto!
“Hai programmi per questa sera?” mi chiese senza preamboli.
Rimasi in silenzio, la cornetta del telefono attaccata all’orecchio sinistro: potevo sentire il suo respiro dall’altro capo del ricevitore.
“No,” risposi laconica.
“Perfetto! Vediamoci al mare dopo cena!” e riattaccò, senza permettermi di replicare.

 

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